FILIPPO DE PISIS

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BIOGRAFIA



Luigi Filippo Tiburtelli, in arte Filippo De Pisis nasce a Ferrara l’11 maggio 1896.
Come i suoi fratelli il futuro pittore non frequenta la scuola pubblica, ma studia a casa con un precettore e attorno al 1904, comincia a disegnare sotto la guida del professor Odoardo Domenichini e si interessa anche alla botanica, alla storia dell'arte ed alla letteratura; molte di queste esperienze, in particolare quella letteraria, riaffiorano e tornano utili nel suo lavoro pittorico.
Chiamato a Venezia per la visita militare, esegue qualche schizzo dei compagni di camerata, viene riformato, ma durante il soggiorno studia Tiziano, Tintoretto e Tiepolo, mentre copia nei musei e in raccolte private, quadri antichi.
In questo periodo si impegna in un esperimento di poesia futurista, Il bandone e, a Bologna dove si è trasferito per frequentare l'Università, frequenta l’ambiente culturale della città, si lega di amicizia col critico Giuseppe Raimondi, conosce Giovanni Cavicchioli, Umberto Saba, Giuseppe Ravegnani, Marino Moretti e Alfredo Panzini e tiene rapporti epistolari con Giorgio De Chirico, il fratello Alberto Savinio, Tristan Tzara, Ardengo Soffici.
Laureatosi in lettere, insegna per qualche tempo, poi, nel 1920 si trasferisce a Roma dove si dedica alla pittura; frequenta l'ambiente di "Valori Plastici" e stringe rapporti di amicizia con il pittore Armando Spadini.
In questo periodo lavora alla definizione di un proprio linguaggio figurativo, inizia ad elaborare le sue caratteristiche nature morte, accostando in forme evocative oggetti eterogenei tenuti insieme da una fattura leggera e sensuale, piena del silenzio sospeso della Pittura Metafisica.
Esiti interessanti di quel periodo non mancano, ma è a Parigi, dove si trasferisce nel 1925, che, anche grazie allo studio dei grandi ottocentisti francesi e dei contemporanei, raggiunge la piena padronanza dei suoi mezzi, avviando uno dei più straordinari itinerari della pittura del Novecento e dove acquista una solida fama anche come poeta.
Il suo pennello diventa una sorta di sismografo capace di registrare con inimitabile immediatezza ciò che accade nell'attimo dell'incontro-scontro tra la sensibilità dell'artista e l'emozione che gli procurano le cose, anche le più umili: una semplice penna d'oca a terra, nel mezzo di una strada, o una conchiglia abbandonata su una spiaggia.
Tra il 1924 e il 1927 realizza le nature morte marine, "dove la lezione di Edouard Manet  è visibile anche nella scelta della tavolozza, nell'uso delle lacche rosse, affondate nella dolcezza delle terre gialle o bruciate, degli accordi sui complementari giallo-oro e blu di Prussia e l'infinita scala dei verdi accordata coi rossi.
Paesaggi, nature morte, frutti, fiori, animali e uomini sono tratteggiati, sulle sue tele, con pennellate lievi, vibranti, luminose, fragili in apparenza, ma dure in realtà come il fil di ferro.
Agli inizi Filippo de Pisis interpreta a modo effervescente la pittura di De Chirico e di Carrà, in seguito  la sua "vena pittorica" si riduce alle linee essenziali: "Sulla tela dalla lievissima imprimitura si espandono le pennellate a furia, larghe, non grasse di colore, intense nella materia, scorrevoli, asciutte e solo a tratti raggrumate in una sosta più densa, come i nodi in una canna di bambù" (Raimondi).
Le sue opere, che erano state esposte in tutta Europa e accolte nelle più importanti Gallerie e Rassegne d'Arte, raggiunsero il massimo successo alla Biennale di Venezia del 1948 e a quella del 1954.
De Pisis muore a Milano nel 1956, ma gli ultimi dieci anni della sua vita era stata segnato da precarie condizioni di salute a causa di problemi nervosi.
Il Museo d'arte Moderna e Contemporanea di Ferrara ha riservato un'ampia sezione all'opera di Filippo de Pisis: dalla giovinezza ferrarese al periodo romano, dal soggiorno parigino, segnato dalla personalissima rivisitazione della pittura metafisica e dalla successiva maturazione della "stenografia pittorica" con la quale il pittore traduce sulla tela l'emozione di un paesaggio o di un interno, fino alla sintassi figurativa ridotta all'essenziale.
“Nel volgere di un mattino, De Pisis compera un pesce, lo dipinge, lo cuoce e lo mangia” diceva di lui il collega Mario Tozzi. L’impressione è un attimo, e il pittore ferrarese non indugia nell’attesa di fissarla rapidamente sulla tela, in gara con il tempo. In coincidenza con la stagione parigina, adotta uno stile veloce, nervoso, immediato, una sorta di “furore felice”. Sembra addirittura entrare in sfida con l’attimo luminoso degli impressionisti: le sue non sono istantanee, ma sintesi di immagini colte in unità temporali inferiori all’istante, per raggiungere, in un concitato alfabeto morse del colore, l’essenza delle cose, la struttura e la proiezione in direzione del disfacimento. L’essenza, allora. L’essenza fissata nel lasso di tempo che scivola tra un secondo e l’altro: e ciò gli consente di creare dipinti che vanno ben oltre la mera raffigurazione del paesaggio.