FRANCESCO LO SAVIO

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BIOGRAFIA



Francesco Lo Savio ( Roma, 1935 – Marsiglia, 1963 ), artista italiano, concentra la sua produzione in un arco di tempo estremamente limitato ( 1959-63 ). Parte dall'ambito informale che presto supera in favore di una ricerca tesa a far coincidere antillusionisticamente, lo spazio virtuale con lo spazio reale. Crea quindi una serie di dipinti monocromi, in cui la variazione luministica del colore definisce la strutturazione della superficie e la pone in rapporto di continuità con lo spazio ambientale come negli Spazio – Luce, e nei Filtri, incentrati sull’analisi del potere irradiante del colore e giocati sui rapporti tra le forme base del quadrato e del cerchio. L’indagine della relazione tra forma e luce viene ulteriormente sviluppata nei tridimensionali Metalli ( dal 1960 ), progettati per interagire con lo spazio circostante. Dall’inizio degli anni Sessanta incomincia una intensa stagione di collaborazioni e esposizioni internazionali e crea le Articolazioni Totali in cui isola lo spazio con cubi di cemento bianco per certi versi anticipatori della minimal art.
Dopo gli studi al liceo artistico, a Roma, e un breve passaggio alla facoltà di architettura, fin dal 1958 Lo Savio affianca a quella di pittore l’attività di designer. È questo un periodo in cui in Italia, mentre germogliano le ricerche di una nuova generazione artistica che rifugge l’aneddotica dei realismi o il sentimentalismo attribuito all’informale, si diffonde una concezione dell’opera come atto, come qualcosa cioè che non significa e non rappresenta, ma “è”: un’esperienza, in altre parole, tenacemente legata al qui e ora. L’arte, secondo le concezioni del Movimento per l’arte concreta (MAC), deve dunque andare oltre la realtà e l’informe per presentarsi come una sintesi di pittura, architettura e design, mentre, nelle ricerche “programmate” e cinetiche di quegli stessi anni, diviene esperienza che agisce sul pubblico come un modello di comportamento e di sensibilizzazione, declinata in lavori in grado di collegare la loro spazialità interna all’ambiente circostante grazie all’uso del colore puro e della luce. L’opera si  può così manifestare in una dimensione fenomenologica: forma e realtà dell’oggetto (difficile ormai chiamarlo “quadro”) coincidono, come nei lavori di Antonio Calderara o nelle sperimentazioni di Enzo Mari e Grazia Varisco.
Nascono da un’intuizione affine, ma indipendente da gruppi e correnti, le opere di Lo Savio all’indomani del 1959, tutte comprese in una ricerca spazio-luminosa che fa del progetto il momento cardine dell’atto creativo e tende a far coincidere spazio virtuale e spazio reale (lo spazio dell’uomo, come dirà Gastone Novelli scrivendo di lui) per rendere concreta la pittura. Nascono così gli Spazi-luce; i Metalli di radice costruttivista, i Filtri, le Articolazioni totali, per cui fu poco apprezzato allora e per cui oggi gli si attribuisce un’anticipazione del minimalismo, e vedono la luce i suoi scritti.
Lo Savio è stato anche il maggior teorico del proprio lavoro, come dimostra il volume Spazio-luce del 1963, curato dall’artista in ogni dettaglio, dai testi alle fotografie, e dedicato – a ulteriore riprova delle origini del suo pensiero – a Piet Mondrian. Vi si ritrova l’idea, di chiara matrice modernista, che condiziona lo sviluppo del percorso dell’artista e cioè la volontà di «disegnare uno spazio tridimensionale per realizzare un’esperienza biunivoca, interna come problema dell’esperienza formale, esterna come problema del rapporto sociale»: un’idea anticipata dalla citazione da L’uomo senza qualità di Robert Musil posta in apertura al volume e che merita di essere riportata per intero:                                    
Le immagini si dividono in due grandi gruppi opposti, il primo gruppo deriva dall’essere circondati dagli eventi, e l’altro dal circondarli, […] questo «essere dentro a una cosa» e «guardare una cosa dal di fuori», la «sensazione concava» e la «sensazione convessa», l’«essere spaziale» come «essere oggettivo», la penetrazione e la contemplazione si ripetono in tante altre antitesi dell’esperienza e in tante loro immagini linguistiche, che è lecito supporre all’origine un’antichissima forma dualistica dell’esperienza umana.
Dunque l’esperienza è al centro degli interessi di Lo Savio: un’esperienza che soddisfi forma e necessità sociale, capace di concretizzare e potenziare un contatto fra artista e società in oggetti incaricati di innescare esperienze teorico-reali dove, secondo Lo Savio, «teorico» è uguale a «processo dinamico d’azione» e «reale» a «superficie di controllo relazionale». Teoria e realtà, o “progetto e destino”, come avrebbe detto Giulio Carlo Argan, in quegli anni uno dei sostenitori più tenaci della spinta a ritrovare la tensione ideale del modernismo.
Un’esperienza che Lo Savio conduce sulla base di forme e colori essenziali da osservare dal vivo. Un cerchio inserito in un quadrato fatto di stratificazioni di carta semitrasparente, talvolta sostituiti da reti metalliche, che sboccia nell’osservazione rivelando la vibrazione cromatica e le qualità dinamiche della relazione tra superficie e ambiente (Filtri); entità primarie, nere e opache che nascono dall’incidenza di più superfici (Metalli); involucri cubici in cemento bianco con all’interno piani articolati in metallo nero (Articolazioni totali): tutti oggetti che impegnano l’occhio e il corpo di chi guarda.
Vedere le opere di Lo Savio dal vivo è un’esperienza non frequente ma indispensabile. I suoi lavori posseggono infatti una capacità di aprire le geometrie piane (semplici quadrati, rettangoli, cerchi) a una spazialità inattesa, che solo un’osservazione ravvicinata e prolungata può far raggiungere. Emilio Villa, in Attributi dell’arte odierna (ripubblicato da Le Lettere nel 2008), parlava a questo proposito di una “manifestazione, non già coloristica, ma quasi come dermatologica, […] infinitamente deflagrata e paziente”. Altro dato che si può percepire dal vivo: l’energia “paziente” delle forme in cui Lo Savio inaugura, come scrive ancora Villa, “un mondo umile e caparbio di libertà rinnovata. Quella che sembra una immagine atrofica e distrofica (un cubo, una lamiera tesa, il piano che deflette, la spirale intenta all’immoto scatto, l’asse ribaltato) è invece una crepitazione di sforzi e tensioni minime, intimidite, relegate in un segno che è garanzia di processo, di liberazione”.
Ma liberazione da cosa? Ecco un secondo punto: sforzi e tensioni liberano la presenza dello spazio, avvertibile come un respiro lungo ma lentissimo, e tutto secondo geometrie ostinate. Ancora Villa, vede in Lo Savio un “animus operarius, intento e teso a salvare la sua unità” e ci avverte del fatto che “Disperatamente egli sta cercando origini pullulanti, l’immediato motore, la cancellazione delle urgenze di campo e delle solitudini quantitative, spaziali”: dunque uno scambio, un contatto tra opera e spazio, tra superficie e ambiente, tra forme e sguardo, un’estinzione lenta di confini, quella che opera Lo Savio, capace di rendere tangibile, fisico, lo spazio estetico. E Villa sottolinea la disperazione con cui questa ricerca è condotta, riportandoci all’ultimo aspetto, forse quello più acuto – e anche doloroso se vogliamo – che si offre a chi osserva l’opera dell’artista: la ricerca urgente (soggettivamente urgente anche perché collettivamente urgente) di un linguaggio, di forme capaci di comunicare, di instaurare un contatto necessario con la società (e non semplicemente con il pubblico) e il suo fallimento (ma non la sua sconfitta) in un’Italia che celebra i primi segni del “benessere”, vive la tentazione irresistibile del conformismo, dello spettacolo passivo e – come scrisse Ennio Flaiano – vola in soccorso del vincitore. Lo Savio decide di sottrarsi al tradimento della sua utopia di palingenesi sociale: dopo essersi lanciato da un balcone dell’Unité d’Habitation di Le Corbusier a Marsiglia, muore il 21 settembre del 1963. Accanto a lui la moglie Marianne e il fratello Tano Festa, accorso da Roma grazie a una colletta di amici artisti, critici e galleristi.