JANNIS KOUNELLIS
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BIOGRAFIA
Jannis Kounellis (Pireo, Atene, 1936) risiede in Italia dal 1956, allorché, provenendo dalla Grecia, si iscrive all'Accademia di Belle Arti di Roma, diplomandosi alla Scuola di Toti Scialoja. Formatosi nel clima culturale del dopoguerra, sotto l'influenza dell'arte informale, se ne distingue subito, nonostante riconosca in Burri, Fontana e Pollock esempi indiscussi cui fare riferimento nei primi anni in cui muove la sua azione. Messo a punto un suo alfabeto di cifre, lettere e segnali, stampati con smalto nero su lenzuoli che vengono appesi ai muri, esordisce con la sua prima mostra personale nel 1960, alla Galleria La Tartaruga di Roma.
Nell'opera di Kounellis si evidenzia subito la ricerca di una nuova spazialità che l'artista individua in un quintale di carbone ammucchiato sul pavimento del suo studio, quale elemento normativo per una diversa concezione del fare pittorico. L'impiego diretto e dal vero dei materiali ritenuti extra pittorici lo introduce a forme, colori, odori distintivi degli elementi primari naturali o tecnologici da trasformare in energie poetiche attraverso i meccanismi dell'immaginario, del mito, della cultura, degli ideali classici e religiosi, delle passioni. L'abbandono del concetto tradizionale di rappresentazione pittorica con una radicale "uscita dal quadro" lo munisce di una lingua con la quale, a partire dal '67, giunge al pronunciamento di una spazialità ricavabile ogni volta da luoghi e contesti differenti.
Con tali caratteristiche Kounellis calca da circa cinquant'anni la scena internazionale dell'arte ininterrottamente nei cinque continenti, nelle più prestigiose collezioni d'arte internazionali e nei musei di tutto il mondo.
Un unico viaggio. Una sola tensione coniuga il lavoro di un artista come Jannis Kounellis all'arte del passato. Un solo disegno, come il filo di Arianna, si snoda tra percorsi dissimili che si aprono davanti ai suoi passi, in un cammino rabdomantico, guidato da una infallibile sensibilità, dedalo dopo dedalo, sino al centro del labirinto, nel cuore segreto e oscuro di un dramma da visualizzare. Le due stazioni segnate da Kounellis nel suo pellegrinaggio in quei luoghi del sud d'Italia, tra lo Jonio e il Tirreno, dove risuonano, ancor prima della vibrazione delle corde emotive, i richiami potenti delle comuni origini greco-italiche e di un passato prossimo della pittura ancora talmente carico di investimenti ideologici da non poter essere derubricato come uno qualsiasi dei tanti generi sfornati dall'arte del colore, assumono la valenza emblematica di una sola ekphrasis.
Sulle tracce dell'arte classica incontrata nel Museo Archeologico della Sibaritide e di quella piena di pathos di Mattia Preti osservato nella Galleria Nazionale di Cosenza, Kounellis è tornato a offrire con modalità diverse, ma con la medesima lingua, una lectio pittorica di altissimo valore estetico e di indimenticabile vigore retorico. Oltretutto, le due creazioni realizzate entro un medesimo orizzonte problematico - la temporalità ininterrotta di un eterno presente tra la sua arte viva e attuale e quella non diversa del passato quando analogamente concepita -rendono possibili alcune riflessioni relative sia all'efficacia dei costrutti linguistici elaborati da Kounellis sino ad oggi con una estrema mobilità d'uso, sia all'ampiezza delle motivazioni poetiche che lo muovono e alle suggestioni sempre intense di cui è capace artefice in questi casi.
Non è certo né la prima né l'ultima volta che Kounellis si misura con l'azione evocativa a partire da ‘testi' artistici recanti la dimensione della storia. E, ancorché la sua tensione sia attraversata in questi casi da un'estrema prudenza gestuale, per il rischio obiettivo che risiede nell'offrire il fianco a facili ma erronee deduzioni epistemologiche relative alla ipotizzabile vocazione della sua opera verso una normatività classica, Kounellis - da autentico rivoluzionario - non teme di correre quel rischio e s'avventura con una consapevolezza dominatrice in quei territori, ben sapendo da quali ragioni trae origine il suo impulso dialettico.
Come in una sfida che Kounellis rinnova continuamente, la posta in gioco sembra consistere proprio nella dimostrazione del fatto che all'artista in possesso di una lingua è possibile nominare ogni cosa che lo circondi, con tutti è in grado di avere contatti, scambiare esperienze e incontri. Sempre diverso nelle rotte e negli approdi, ma anche immutato nella logica che lo sospinge, il viaggio di Kounellis trae così origine dalla dinamo libertaria e sognatrice di un'arte fondata su un'estrema mobilità dialettica con luoghi, persone e segni in un'accelerazione progressiva nell'opera formatrice. Con tali stigmate di rapidità generativa, il lavoro di Kounellis si pone automaticamente in gioco attivo con quello dei suoi contemporanei, non senza considerare tali però anche coloro la cui arte, nonostante appartenga al passato, continua a inviare nel presente spore capaci di feconde reazioni in chi le sa cogliere. Quello di Kounellis, infatti, non è né il ‘viaggio sentimentale' di Sterne né il ‘gran tour' di Goethe in Italia. Ma quello ben più febbrile di chi non smette di tornare a riconoscere le proprie radici identitarie per garantirsi un futuro.
Nei giorni che intercorrono tra l'immersione nelle viscere della Magna Grecia a Sibari e il suo rinnovato incontro con la pittura di Mattia Preti a Cosenza - appena alcune settimane di intervallo - Kounellis ha fatto in tempo a compiere una delle sue più grandi installazioni a Jaffa, porto di Israele affacciato sul Mediterraneo. Non diversamente dalle ‘stazioni' effettuate in Calabria, l'incontro con quei luoghi, le culture che li distinguono e gli ambienti ove ha concepito un nuovo vasto organismo plastico favoriscono in lui un'ulteriore occasione di approfondimento conoscitivo e di presa di coscienza di una realtà di cui intende misurare di persona e attraverso il proprio lavoro la drammatica tensione. Dopo l'installazione delle dodici porte alla Vijećnica di Sarajevo (2004) e l'Atto unico al teatro Attis di Atene, con il Senza titolo (2005) dei quarti di bue sul palcoscenico, l'opera di Jaffa è il compimento di una ‘trilogia mediterranea' attraversata da una vena al limite del tragico e piena di nuova emotività. La teoria circolare di topos, ognuno dei quali contrassegnato da una morfologia elementare ripetuta quantitativamente e allineata in diagonale nello spazio, come un ingranaggio simbolico, ai piedi di una fila di lampioni, dai cui fanali accesi spande una luce emblematica - non priva di echi tragici indelebili - è una delle pagine più intense del repertorio di Kounellis già dedicato alla storia e alla cultura ebraica.
Ma una più ampia peregrinazione, svolta da Kounellis nel corso di tutta la sua vita, attraverso moltissimi paesi e in tutti i continenti, in una moderna odissea inarrestabile, fanno di lui l'Ulisse dei nostri giorni.
Prima di compiere la doppia installazione in mostra nel Museo Archeologico della Sibaritide tra reperti che dall'VIII secolo a.C. giungono fino al VI secolo d.C., scavati nel luogo ove un tempo ebbe vita felice Sibari, fiorente città dello Jonio, di ritorno da Cosenza, nel maggio, Kounellis arrivò in quella campagna luminosa e già rovente sul far della sera. La visita ai siti e alle vetrine del museo, piene di frammenti, monili e reperti decorati, aveva stimolato le prime reazioni immaginarie; ma la concezione del lavoro che successivamente ha preso corpo in quelle sale è sopraggiunta a Kounellis qualche istante dopo una lieve pioggia caduta attorno al museo. La simultanea percezione avuta dopo quella precipitazione di diversi effluvi provenienti dalle essenze vegetali presenti nelle terre circostanti il museo aveva risvegliato nei suoi sensi - come la madeleine proustiana - la presenza di un passato del tutto ancora vivo. La traduzione in immagini giunse in un lampo alla mente. Come una pentecoste di pietre calate a mezz'aria dal soffitto del museo su centinaia di ciotole allineate sul pavimento e contenenti diverse essenze liquide, quella pioggia lirica sembrava essere il prodigioso evento che liberava nell'aria una miscela di profumi tanto intensa quanto ansiogena.
Tra le pietre, Kounellis è giunto a sospendere anche neri corvi impagliati, non privi di una valenza tanatologica. L'immagine ideata e realizzata da Kounellis era stata concepita in stretta relazione alle migliaia di frammenti di opere in ceramica, pietra, bronzo, oro custoditi nelle grandi vetrine del museo e in tal modo obiettivamente separati dai passi di ogni visitatore. In questo senso, sia la disposizione delle pietre e dei volatili che quella delle ciotole è stata rigorosamente effettuata da Kounellis battendo quote e allineamenti strettamente marcanti lo spazio vuoto tra le vetrine. Facendo attenzione che le pietre, osservando un'unica linea d'orizzonte al di sopra del capo di ciascun visitatore, ma non al di sotto della sommità delle vetrine, saturassero della loro paradossale gravità-levità la spazialità residua dell'ambiente.
L'intensa diffusione dei profumi nelle due sale del museo e la ritmica disposizione delle pietre e delle ciotole negli ambienti considerati finivano così per produrre un silenzio attraversato dall'inaudito ultrasuono del prodigio. E si può ipotizzare che sia stata comune a tutti i visitatori del museo la sensazione di una lieve vertigine mista a ebbrezza suscitata dalle essenze profumate.
Uno sguardo retrovisivo consente di cogliere in questo lavoro di Kounellis una serie di costrutti lessicali definiti già in precedenti opere, ancorché dalla valenza straordinariamente libera in senso coniugativo. In tale excursus filologico è possibile infatti evocare almeno tre o quattro episodi ‘storici' in cui Kounellis mette a punto sia gli elementi-contenitori, sia i ‘gravi' sospesi, sia la volatile presenza e infine la diffusione di aromi nello spazio. Si tratta in quasi tutti i casi di un uso reiterato delle glosse formali a cui Kounellis è pervenuto nel tempo.
E se, nel far ricorso al profumo, la progenitura del gesto di Kounellis deve essere ascritta a quel Senza titolo (1969) del piccolo cumulo di polvere di caffè macinato e deposto sulle bilancine di metallo sospese la prima volta dalla parete della galleria di Lucio Amelio a Napoli, per l'impiego seriale dei contenitori posti l'uno accanto all'altro sul pavimento, colmi di un liquido fortemente aromatico, si deve richiamare invece l'opera Senza titolo (1988) realizzata a Chagny, presso la galleria di Pietro Sparta, dove centinaia di bicchierini di vetro spandevano nell'aria l'intenso aroma di un alcool. Una medesima concezione presiedeva peraltro all'opera Senza titolo (1989) realizzata presso la Reggia di Capodimonte a Napoli, dove una distesa di decine di orci in terracotta, serrati a formare un ‘corpo', pieni di acqua di mare (ma anche di sangue) davano vita a un traslato anatomico di risonanza umanistica.
Ognuna di queste invenzioni lessicali di Kounellis ha trovato nuove integrazioni in frasi visive di opere come quelle allestite presso il Museo Nacional de Artes Visuales di Montevideo (2001) o lungo l'arco temporale esteso nelle variegate creazioni dell'artista.
Distinti richiami all'impiego delle pietre sospese a tondini di ferro o a corde vanno fatti altresì risalire all’inizio degli anni Novanta in opere come il Senza titolo (1993) della mostra Lineare notturno realizzata nel museo di Recklinghausen, al Senza titolo (1995) presso lo Château de Plieux in Francia e con la morfologia del ‘sipario' divisorio in opere come i Senza titolo (1997) di Halle Kalk di Colonia (con sfere di piombo al posto delle pietre) o di Bergamo nella chiesa di Sant'Agostino (2005) e di Edimburgo (presso la Scottish National Gallery of Modern Art) con grandi frammenti di vetro policromo). Nondimeno, la presenza di corvi trattati tassodermicamente, sia nelle posture del riposo che in volo, si ritrova in alcune precedenti installazioni di Kounellis. Basti ricordare il Senza titolo (1903) di Rimini, ove i volatili apparivano trafitti contro il muro su cui era tracciato al carbone il profilo di una città industriale, o il Senza titolo (2007) nel cortile di Palazzo Farnese a Roma e in altri lavori.
Tutte le versioni che Kounellis, con inesauribile capacità metamorfica ha sino ad oggi concepito e attuato mediante l'uso di frammenti o parti elementari avvicinate tra loro nell'intento reintegrativo di un'unità ideale perduta non possono prescindere da una sua opera chiave, basilare per ogni successiva composizione: il Senza titolo denominato Apollo, realizzato per un soggiorno di rientro in Grecia e poi a Roma presso la galleria La Salita (1973). In quest'opera, la viva sonorità del flauto e i calchi in gesso dei frammenti anatomici del dio sparsi su un tavolo e sormontati da un corvo nero, alla presenza dell'artista stesso che, seduto dietro il tavolo, indossa la maschera misterica, si fondono in una immagine epico-tragica, tanto intensamente pervasa da thanatos quanto tesa a suscitare una rogatoria di riscatto e rinascita.
È evidente, dunque, che il Senza titolo (2007) di Sibari, immaginato da Kounellis quale "tocco leggero come le ali di un passerotto" vuole avere la stessa lievità dei profumi emersi dai campi attorno agli scavi dopo la pioggia primaverile, come anche dei frammenti di pietra sospesi alla stregua di gocce d'acqua e del planare dei corvi sui campi. Nell'immaginario attivo di Kounellis, ma anche in quello di ogni osservatore sensibile in visita ai reperti degli scavi di Sibari attraversati dall'installazione dell'artista, tutta la storia prende vita e si riaccende nei sensi. Le essenze copiosamente raccolte nelle ciotole risvegliano una primavera riferita agli antichi.
I materiali impiegati da Kounellis in questa creazione sono strettamente legati alla sua lingua. Con essa egli nomina quel che è logos e passato nell'archeologia, ma il logos porta l'antico a divenire ‘leggibile'. La lingua ‘presentativa' di Kounellis nasce con ragioni di ‘vero' e con intenzioni drammaturgiche esplicite. Attraverso di essa egli sottolinea la posizione di ogni cosa nello spazio, insegue la verticalità evocativa e il fantasma che intende far rivivere. Tutto l'intervento compiuto a Sibari si compie pertanto sotto il segno anagenetico della visionarietà poetica di cui Kounellis è vigoroso interprete.
L'enorme lettera iniziale "K" su cui si basa la poderosa installazione ideata e realizzata da Kounellis per la ex Sala delle Udienze Civili al secondo piano di Palazzo Arnone, oggi sede della Galleria Nazionale di Cosenza, si estende in tutto quell'ambiente occupandone gran parte. La costruzione di quella lettera alfabetica in lamiere di ferro brunito, oltretutto distintiva del cognome dell'autore, è stata da lui concepita in forma di un articolato tavolo le cui numerose gambe scandiscono i segmenti di cui è composto, poiché in tal modo era possibile - e non diversamente - sia trasportarlo dallo studio di Kounellis sino a Cosenza, sia introdurlo sino a quel piano e in quella sala.
Sopra quel vasto piano d'appoggio Kounellis ha collocato, seguendo lo sviluppo spaziale della lettera, una quindicina di grandi volumi verticali, parallelepipedi, di lamiera di ferro anch'essi, entro la cui sommità cava ha rovesciato numerosi quintali di carbone, lasciandone in evidenza l'oleosa e brillante frammentazione. Così strutturato, il grande complesso plastico, con le sue fughe rettilinee o angolari, i suoi vicoli ciechi e le sue appendici squadrate o appuntite, incombe sull'intero ambiente come i propilei sulla rupe del Partenone. Ma se si entra in quell'ampio locale, attraverso il vestibolo che lo precede con triplice arcata su due pilastri a sezione quadra, coevo all'esecuzione della sala, si ha un impatto disorientante, come se ci si introducesse in un cul de sac o, peggio, si ha la sensazione di trovarsi di fronte a una costruzione labirintica. E viene da domandarsi, a quale scopo Kounellis ha voluto erigere questa sua nuova architettura visionaria? La risposta sta in quella straordinaria ‘esposizione' di cinque tele originali di Mattia Preti che egli ha voluto ‘innalzare' sulla propria installazione (in modo elettivo analogo alle scarpette fuse in oro del figlio Damiano-"Rousseau" nel Senza titolo del 1973), giungendo a una eloquente morfologia integrata in cui si evidenzia una relazione dialettica con la pittura del pittore calabrese, ma anche con la tensione controriformista che la distingue.
A partire dall'assunzione" di quelle cinque tele di Mattia Preti raffiguranti rispettivamente Ercole libera Prometeo (1650~1656), Labano cerca gli idoli nel baule di Giacobbe (Storia di Rachele) (databile prima del 1656), una probabile versione del Ritorno del figliol prodigo, e inoltre Ercole libera Teseo (1650-1656) e Cristo risorto in veste di giardiniere appare alla Maddalena (1670-1680), Kounellis formula una collimazione dialettica con uno dei più originali protagonisti della pittura caravaggesca e controriformista, ‘sostenendone' sulle proprie ragioni linguistiche e formali le motivazioni ideologiche che avevano determinato e determinano tuttora rispettivamente la pittura del Preti e la propria.
La verticale drammaturgia di Kounellis dispiegata in tutta la sua incisività attualizza tanto la pittura di Mattia Preti quanto la problematica antimodernista della propria opera. Nella volontà di rendere evidente quella identificazione, egli congiunge e serra i volumi metallici su cui sono appesi con ganci da macello i dipinti lividi e pieni di chiaroscuri di Preti, con neri panneggi connettivi e con grossi fardelli chiusi attorno a invedibili indumenti usati e laceri. In quel modo, instaurando una circolarità tra le morfologie presenti nei dipinti del Preti e alcune forme da lui concepite, Kounellis giunge a suscitare in ognuno e nello spazio ormai qualificato dal suo intervento una continuità indicativa della consapevolezza che l'arte del passato, come brace sotto la cenere, è dentro di noi. Se dunque la radicalità sta nell'antichità, il modernismo appare come una storia minore, al punto che, comprendendo attraverso lo scambio dialettico gli elementi di una autentica appartenenza delle proprie radici alla storia, in tale identificazione è possibile individuare una vera modernità.
Scoprire l'immaginario di Mattia Preti, assumerlo come pittore, dichiararlo e sottrarlo alla museografia per riproporlo criticamente significa per Kounellis tenere vivo il passato, compiere un'azione critica nei confronti della pittura controriformista quale inizio della critica, rivendicare la facoltà ideologica della pittura a fronte della sua riduzione alla decoratività.
Ancora prima di questo episodio cosentino d'incontro con la pittura del Preti conservata in Calabria, Kounellis aveva già intrecciato in ben due altre circostanze un confronto dialettico con la sua opera: nell'installazione realizzata sotto la volta affrescata dal pittore calabrese sul pavimento del Salone del Palazzo Doria Pamphili a Valmontone (2000) e nella mostra presso lo spazio della Galleria diretta da Alessandro Boncompagni Ludovisi accanto all'opera Il sacrificio di Muzio Scevola (2007), in via della Lupa a Roma.
Ma la terna di esposizioni con il Preti rischierebbe di apparire come una pura ricorrente sintonia con l'arte di quel pittore se Kounellis non avesse già, con chiarezza, espresso lo stesso tipo di indicazione critica in altre circostanze dialettiche con la pittura antica, in primis di fronte all'opera di Caravaggio presso la Galleria Borghese a Roma (2002) e, successivamente, con quella stessa di Michelangelo nel recente episodio Forme per il David presso la Galleria dell'Accademia di Firenze (2004).
In ognuno di questi ‘incontri', Kounellis ha ribadito il "credo nella pittura italiana che a partire dal suo Rinascimento e per la sua natura controriformista si è dimostrata ideologicamente vasta" e linguisticamente innovativa.
Mattia Preti, con il suo fervore e la sua ‘teatralità' partecipante, gli appare come un pittore dal robusto impianto narrativo tutt'altro che accademico, capace piuttosto di anticipare e influenzare, come il suo maestro Caravaggio, la grande pittura ‘storica' a loro successiva, da Géricault a David, da Rubens a Fragonard. Oltretutto, la presenza della pittura di Mattia Preti a Napoli e a Capodimonte, luoghi frequentati a lungo da Kounellis, gli ha certamente consentito, in altre diverse circostanze, di ammirare i soggetti particolarmente drammatici delle pitture dedicate alla preparazione degli affreschi commemorativi per la cessazione della peste di Napoli del 1656.
È in questa ‘meditazione' propositiva, attraverso un felice e generoso gesto di rilettura di una figura complessa ma rivitalizzante della pittura del Seicento come il Preti, che è possibile, per l'ennesima volta, riconoscere la grande lezione pittorico plastica e al contempo ‘critica' di Kounellis, uno dei massimi artisti contemporanei che l'Italia può vantare.