Superficie, gesto, caso.
I coriandoli di Tano Festa
Testo critico a cura di Giulia Tulino
24 ottobre – 23 novembre 2019
Inaugurazione: Giovedì 24 ottobre, ore 17:30
Via Angelo Brunetti 41-43 Roma
Orari di apertura: dal martedì al sabato 10:30-13:00 / 15:30-19:00
domenica e lunedì chiuso
La Galleria Scarchilli, con la curatela di Giulia Tulino, conferma la sua presenza alla Rome Art Week 2019 e presenta un evento dedicato a Tano Festa, esponente della Scuola di Piazza del Popolo e, con Mario Schifano e Franco Angeli, tra i maggiori esponenti della Pop Art italiana.
Interamente incentrata sulla serie dei Coriandoli, opere realizzate durante gli anni Ottanta che ricongiungono l’artista ad una dimensione concettuale e ideale dell’arte, la rassegna intende mettere in luce uno degli aspetti più poetici della produzione dell’artista, in cui il gesto assume sulle superfici colorate un valore di casualità e spontaneità che richiama, sul piano concettuale, la sua prima produzione nata nel periodo che lui chiamava: il clima felice degli anni Sessanta. Tutte le opere presenti in mostra sono corredate dell’autentica dell’Archivio Tano Festa – Archivio delle opere.
Testo critico
In un’intervista rilasciata ad Antonella Amendola nel 1986, Tano Festa, parlando degli anni Sessanta, ricordava che i diversi pittori che si radunavano da Rosati sperimentavano una nozione felice, etica, della libertà artistica.
Anni briosi gli anni Sessanta, intensi di scambi e viaggi, da molti considerati il suo periodo aureo, il momento in cui, come molti degli artisti che ricordava, si cercava una verifica dei linguaggi artistici precedenti e un’alternativa al dilagante e ormai stanco stile Informale. Quella di Tano Festa, tra le altre, si poneva come una delle più promettenti proposte, nata da una riflessione sul costruttivismo e sulla metafisica, confluita poi nella realizzazione di una serie di oggetti privi di funzionalità (persiane, specchi, armadi) in cui il non-sense acquisiva una simbologia e una declinazione analitica e metafisica. Sempre nel corso degli anni Sessanta, Festa inizia un lavoro basato sull’impiego di un’iconografia classica mediante la pratica della citazione, dimostrando che la storia è l’esito di un tracciato, di un percorso capace di armare il procedimento creativo come strumento di dialogo: la sua versione dell’arte pop utilizzava modelli che fanno parte della tradizione italiana e europea in antitesi ai modelli americani, che si avvalevano invece delle icone del capitalismo in un tempo presente. Sono anni proficui e pieni di speranze ma allo stesso tempo iniziano per l’artista alcune esperienze negative che lo segneranno negli anni a venire. Nel 1963 perde il fratellastro, Francesco Lo Savio, anche lui giovane e promettente artista, che decide di togliersi la vita. Molte testimonianze di amici e conoscenti parlano di un momento difficilissimo e di grande conflittualità psicologica. Contestualmente, i viaggi negli Stati Uniti che Festa compie in questi anni, non vengono descritti in modo del tutto positivo nelle lettere che scambia con amici e mecenati e l’artista ci appare sempre e in qualche modo pensieroso e “fuori posto”.
Resta il fatto che l’artista romano, nonostante pro e contro, era stato in grado di avviare un processo di “oggettualizzazione dell’immagine artistica” capace di portare dal quadro all’oggetto e quindi, dall’idea al reale (Celant 1977).
Nel 1972, Tommaso Trini scriveva che, nel caso di Festa: “qualcosa si era rotto tra l’opera (la sua filosofia) e il sistema di comunicazione (gallerie, riviste) che pur aveva adottato l’opera (il suo prodotto).” Proseguiva ancora definendolo: “un’artista difficile da trattare sul piano storico e critico. Quel che si dice un “caso”: caso esemplare che oltrepassa l’artista per rimandarci alla più vasta questione dell’avanguardia.”
A partire dagli anni Settanta e durante gli Ottanta l’artista prosegue, in modo ricorrente e se vogliamo anche ossessivo, il lavoro sul citazionismo, disseminando la sua intera produzione di omaggi alla grande arte antica e del recente passato (Leonardo da Vinci, Turner, Velasquez, Manet, Cèzanne su tutti) e instaurando coi Maestri un dialogo mai sterile e pedissequo ma sempre proficuo e fecondo di suggestioni e di sviluppi. Un’alternanza di vuoti e pieni, tra il gusto fotografico e la predisposizione concettuale, tra il furto come unica forma di continuità nell’arte e il continuo formulare nuovi registri al limite tra espressionismo e grafismo di segno elementare.
Il suo paesaggio è sempre Roma ed è evidente che proietta sé stesso in ogni opera: la sua è una memoria frammentata che trasuda un’ironia amara, una condizione al limite tra felicità e condanna. Con gli anni Ottanta termina definitivamente l’approccio intellettualistico e prende il sopravvento la manualità. E’ in questo periodo che inizia la serie dei Coriandoli. Originariamente queste opere nascevano come allegorie delle Quattro Stagioni, dove su fondi azzurri densi di materia pittorica venivano lanciate manciate di coriandoli colorati che avevano una funzione specifica a livello formale ovvero un alleggerimento dell’immagine. Sono composizioni che gli permettono una libertà di azione rispetto al modello culturale della pittoricità pura e si riallacciano al movimento Dada sia per la componente della casualità (lanciare i coriandoli su una tela è un’azione dal risultato del tutto fortuito) sia per l’evocazione di una spontaneità infantile e del gioco in antitesi alle regole sociali precostituite.
E se in origine queste opere nascevano come allegoria delle Quattro Stagioni, via via assumono le sembianze di galassie o città storicamente importanti (come ad esempio Pompei). Opere come spazi di fantasia, mondi in cui Festa, spiazzato dall’idea di dover coesistere in una realtà che non amava, trovava il modo di verificare la propria dimensione esistenziale: lucida, vera e profondamente legata ad una perduta spensieratezza.
Osservandoli oggi, così colorati, comunicativi, estrosi, simili eppure così differenti uno dall’altro, è possibile vedervi insito quell’ultimo messaggio di un’artista che ha messo in gioco se stesso più di quanto non abbia messo in gioco la sua pittura, la vicenda esistenziale di chi ha vissuto il ricordo delle sue stagioni primaverili. Un gesto, quello operato sulle tele colorate che, nonostante nascesse da una reale necessità, diventava pura poesia e in cui la libertà fantasticata e sempre teorizzata, raggiungeva finalmente una dimensione ideale.
Galleria Scarchilli
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